Il traduttore come esploratore

di Silvia Iannone

Da qualche anno, anche grazie ai consigli del mio compagno, mi sono appassionata a una serie di romanzi ambientati nel mondo della Royal Navy tra il Settecento e l’Ottocento e alle esplorazioni britanniche (soprattutto quelle alla ricerca del mitico passaggio a nordovest) della prima metà dell’Ottocento.

Sotto certi aspetti, ho trovato dei punti in comune tra la vita di un traduttore e quella di chi partiva alla volta del Polo, dell’Equatore o, più in generale, si imbarcava su una nave della flotta di Sua Maestà per adempiere a un incarico. Facendo un paragone riduttivo, entrambe le categorie partono da un punto A per raggiungere un punto B: che la partenza sia un testo da tradurre o il porto di Plymouth poco importa. La destinazione è altrettanto ovvia: non sempre, però, si arriva dove si dovrebbe (o vorrebbe) né il viaggio si rivela affare semplice, anche se si credeva di aver pianificato tutto nei minimi dettagli. Ai miei occhi, il traduttore riesce a incarnare più di un membro dell’equipaggio di una spedizione navale: è insieme comandante e comandante in seconda, semplice terrazzano e medico di bordo.

Non voglio annoiare chi leggerà quindi eviterò di inserire tutti gli aspetti comuni che la mia mente malata mi ha suggerito, ma lascerò che siate voi a trovare delle analogie con la vostra professione, vita familiare, di coppia e chi più ne ha più ne metta attraverso i miei consigli di lettura (più una serie TV) sull’argomento che troverete alla fine del post. E se non doveste trovare analogie, avrete comunque dei suggerimenti per distrarvi e scoprire qualcosa di nuovo.

L’IMPORTANTE NON È LA META, MA IL VIAGGIO

Vero, anche se a volte questa frase mi dà l’impressione di essere una pacca sulla spalla di chi non è riuscito ad arrivare dove voleva o doveva. Come dicevo all’inizio, il punto di partenza di una traduzione o di una spedizione è certo, così come la destinazione. Almeno nella nostra testa, quando siamo belli freschi e convinti di avere tutto il necessario per riuscire nell’impresa. La realtà è che t’imbarchi, con la sicurezza di chi è pronto a tutto e ha pensato a tutto, e nel percorso incontri tante di quelle difficoltà da farti pentire, ogni tanto, di aver accettato un lavoro.

Così come l’acqua delle regioni polari si trasforma in ghiaccio troppo rapidamente per consentire un passaggio agevole e temibili iceberg spuntano in massa facendoti sentire sopraffatto, capita di imbattersi in termini o interi passaggi dal significato oscuro, ostici, che ti bloccano o costringono a cambiare rotta. Quando mi capita mi demoralizzo, impreco e invoco l’aiuto divino più o meno con la stessa frequenza, ma non mollo. Per quanto disperata sembri la situazione, dentro di me sono convinta che ce la farò. Forse non otterrò il risultato perfetto che avevo in testa quando sono partita, ma riuscirò a riportare a casa la pelle. E, se non scoprirò il passaggio a nordovest, grazie ai miei sforzi avrò comunque apportato un enorme contributo scientifico/geografico/antropologico al bagaglio delle conoscenze umane. O male che va, saranno i posteri a riconoscere il mio duro lavoro e le mie brillanti intuizioni. Spero.

BREVE TRATTATO SULLO SCORBUTO E SULLA CECITÀ DA NEVE

Lo scorbuto è stato uno dei grandi flagelli della vita di bordo del XIX secolo (e non solo): la carenza di vitamina C e la scarsa disponibilità di frutta fresca misero fuori gioco equipaggi interi. D’altronde seguire una dieta equilibrata su una nave non era facile, peggio ancora se la destinazione prevedeva immense distese di ghiaccio e di nulla o, se andava bene, carne di orso polare e di foca. Nei casi più estremi, anche cinture, stivali… o qualche compagno di viaggio.

Be’, la difficoltà di rispettare un regime alimentare sano fa parte anche della vita di un traduttore (o almeno della mia). Spesso il lavoro porta via troppo tempo per riuscire a mangiare come si dovrebbe, figuriamoci cucinare. Le riserve di cibo accumulate con cura e fatte per durare un’eternità si riducono rapidamente e, per andare avanti, non resta che razionare il cibo a disposizione. Ecco allora improbabili pranzi a base di semi di zucca, rigorosamente consumati di fronte al computer, litri di caffè per stimolare la concentrazione e a cena chilate di pasta col pesto “che così famo prima”. Al contrario di ciò che accadde nella spedizione guidata dal Capitano John Franklin e diretta verso le coste settentrionali del Canada, per fortuna non sono mai arrivata al punto di dover mangiare le mie stesse scarpe o un mio compagno di viaggio, per sopravvivere.

Un’altra patologia che colpiva questi uomini durante i loro viaggi e che associo ai traduttori è la cecità da neve. Questo disturbo momentaneo è causato dall’esposizione prolungata ai raggi ultravioletti, esposizione quasi inevitabile durante una spedizione artica, che provoca nei casi peggiori cecità parziale o totale. Ed è esattamente quello che provo io dopo ore passate di fronte allo schermo: non solo un crescente fastidio agli occhi, ma una cecità “mentale” indotta dallo sforzo di leggere, capire e trovare la soluzione linguistica più adeguata in tempi stretti. Ecco, quindi, che può capitarmi di lasciare un vocabolo o un’intera frase nella lingua originale, senza accorgermene minimamente. E quando il revisore me lo fa notare, resto lì a fissare incredula quella missing translation, maledicendo me e la mia disattenzione. Oppure di tradurre fischi per fiaschi, come quando tradussi basketball con baseball. Il motivo di questa svista clamorosa può essere uno solo: cecità totale ma, grazie al cielo, momentanea.

L’UNIONE FA LA FORZA. A VOLTE.

Quando nel 1818 a John Ross fu affidato il comando dell’Isabella e la missione di trovare una via tra Atlantico e Pacifico, nessuno poteva immaginare quanto quella spedizione si sarebbe avvicinata alla meta tanto agognata. All’imbocco del Canale di Lancaster, parte del passaggio a nordovest, Ross scambiò la via d’acqua per una baia e ritenendola, con una certa arroganza, inutile e non percorribile, decise di non fare alcun tentativo per esplorare più approfonditamente la zona. Questo stupì diversi membri della spedizione che, al ritorno in patria, non furono teneri nel giudicare la scelta di Ross al quale, da quel momento in poi, non venne più assegnata alcuna nave. La decisione ultima spetta al comandante ma un comandante saggio ha il dovere di indagare sulla questione, se qualcuno non è d’accordo con lui, sondando gli umori e ascoltando le opinioni altrui. Fare squadra non è semplice.

Il mio è un lavoro solitario e la cosa non mi dispiace. Sono io a decidere (più o meno; ovviamente dipende anche dal tipo di lavoro e dal cliente), io a occuparmi della traduzione dall’inizio alla fine, miei sono i meriti e mie le colpe in caso di errore. Io sono il comandante e l’equipaggio.

Alcuni progetti però, per una questione di tempo e mole di lavoro, richiedono lo sforzo congiunto di più traduttori. E se da una parte il confronto è sempre motivo di crescita personale e professionale, dall’altra può trasformarsi in un’interminabile guerra di opinioni linguistiche. Siamo abituati a studiare, a fare ricerche e trovare soluzioni basandoci su fonti e dati: non sono rari scambi accesi sulla traduzione più adeguata di un termine o di un’espressione. Le nostre proposte vengono sostenute da un’infinità di testi, collegamenti ipertestuali per dimostrare ai colleghi che “guarda che c’ho ragione io” e averla vinta riguardo alla traduzione da adottare. Non è l’arroganza a farci insistere ma piuttosto la consapevolezza degli sforzi intellettuali che abbiamo fatto per arrivare a quella scelta, che reputiamo la migliore. Cedere può essere difficile, ci puzza di resa e vanificazione completa del nostro impegno. In casi del genere, il capitano della nave è il responsabile di progetto, che ha sempre l’ultima parola, non senza difficoltà (tendiamo a discutere anche con chi è al comando. E allora il responsabile diventa più simile a un domatore di leoni, che ti rimette al tuo posto armato di frusta e sgabello).

L’IMPORTANZA DELLA DISCIPLINA

Lavorare da casa richiede una certa disciplina per mantenere dei ritmi di vita normali: conviene darsi degli orari e cercare di seguire una routine che scandisca la nostra giornata. Per quanto mi riguarda, se non mi impongo di svolgere altre attività quando lavoro, rischio di restare attaccata al PC 12 ore di seguito senza fare altro e a fine giornata, per via dell’inattività prolungata, raggiungo il letto strisciando come un lombricone. Quindi vai con la ginnastica, la cura della casa (minima. Tipo lavare una forchetta. Ci sarà tempo per metterla a posto al prossimo lavoro) e il contatto con altri esseri umani per evitare di perdere del tutto il senno a forza di parlare da soli.

Durante le spedizioni dirette a Nord non era infrequente che le navi restassero bloccate tra i ghiacci, costringendo l’equipaggio a sospendere la traversata per parecchio tempo. Anche su una nave la disciplina era fondamentale, e ancora di più in casi simili. L’inazione si sarebbe ripercossa negativamente sull’equipaggio e sulla spedizione. Perciò, anche navigare era impossibile, bisognava tenere impegnata la ciurma con attività varie, cosa che capiva perfettamente Sir William Edward Parry il quale, bloccato dal ghiaccio insieme ai suoi uomini nel 1819, cercò di mantenerli in buone condizioni fisiche e mentali grazie al lavoro, alla ginnastica, alla caccia e organizzando addirittura rappresentazioni teatrali in quello che fu definito il Royal Arctic Theatre per consentire agli uomini di distrarsi e trovare un po’ di sollievo dalla lunga notte artica.

LA FAME E LA GLORIA

A volte si prendono lavori belli belli in modo assurdo, di quelli che ti riempiono di orgoglio una volta conclusi e che ti fanno sentire di avere dato un contributo importantissimo alla cultura del paese, valendoti onori e gloria. La missione che ti farà diventare Ammiraglio, rendendoti immortale!

Ma, molto più spesso, come coloro che venivano arruolati forzatamente sulle navi o che accettavano un incarico non tanto per passione quanto per necessità economica, capita di accettare lavori meno prestigiosi o che addirittura, come René Ferretti, un giorno ti faranno dire: “Mamma mia, la monnezza che ho fatto”. Li accetti lo stesso perché non si finisce mai d’imparare, certo, ma soprattutto perché sei fermo da un po’ e morire di fame è fuori discussione.

Traduttori e navigatori hanno in comune questo e altro: devono calcolare con accuratezza le tempistiche dei loro incarichi, cercare di conoscere meglio la cultura del paese di destinazione per poterne trarre un vantaggio sul campo, farsi mezzo comunicativo tra due culture navigando nelle acque instabili e dai confini mutevoli dell’oceano linguistico.

Se siete arrivati fino a qua, intanto, complimenti. Forse alcuni passaggi vi sono rimasti oscuri, mentre altri vi hanno ricordato qualcosa delle vostre vite. D’altronde chi non si è mai sentito in balia della tempesta in alcuni momenti o semplicemente si sentiva troppo stanco anche solo per rifare il letto? Soprattutto in questo momento storico, è capitato di avere la comune sensazione di non riuscire a mettere insieme un pasto decente o di sentirsi “incriccati” dopo tante ore di lavoro da casa.

Spero che il viaggio vi sia piaciuto e, nel caso, vi lascio alcuni suggerimenti se volete approfondire:

  1. La saga di Jack Aubrey (ve lo dico subito: purtroppo è incompiuta) scritta da Patrick O’Brian. Una serie di romanzi storici incentrati sulle avventure marinaresche del Capitano Jack Aubrey il Fortunato e di Stephen Maturin, medico di bordo e naturalista, che ha ispirato il film Master & Commander – Sfida ai confini del mare. Non avrei mai pensato di appassionarmi a una saga del genere ma l’ironia, l’intreccio, la minuziosità con cui vengono descritti personaggi, luoghi, azioni e contesto storico me ne hanno fatto innamorare perdutamente, tanto da centellinarla per paura che finisca. Bellissima la traduzione di Paola Merla, che si dev’essere fatta un discreto mazzo per affrontare quest’opera e di cui ascolterei volentieri l’avventura traduttiva, sicuramente formidabile quanto le avventure narrate in questo ciclo di romanzi. Fondamentale la consulenza di Pier Maria Giusteschi Conti, professore di storia medievale e Capitano nell’animo, che ha curato anche il glossario dei termini marinareschi inserito alla fine di ogni volume della saga. 
  2. I ragazzi di Barrow di Fergus Fleming, degnissimo nipote del più famoso Ian, tradotto da Matteo Codignola (mica pizza e fichi!), libro che più di tutti mi ha ispirato questa associazione tra navigatori e traduttori. L’autore racconta, in maniera precisa e divertente, le esplorazioni britanniche di inizio Ottocento realizzate per guadagnare un vantaggio strategico e commerciale sulle altre potenze dell’epoca.
  3. Dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco. Già consigliato qualche casella fa dalla bravissima Serena, se questo libro sulla traduzione è stato suggerito due volte, un motivo ci sarà! Una lettura imperdibile per addetti ai lavori, appassionati di lingua e scrittura o semplici curiosi.

La prima stagione della serie televisiva The Terror, basata sul romanzo La scomparsa dell’Erebus di Dan Simmons circa la spedizione artica di Sir John Franklin finita non male, di più. La storia, arricchita in questo caso da elementi horror e fantastici, non può lasciare indifferenti. Potete vederla su Prime Video.