Giovedì gnocchi, una rubrica semiseria sulla brand identity

di Agnese Iannone

Quando a novembre 2019 mi sono dimessa volontariamente da un lavoro “sicuro”, non avevo obiettivi a lungo termine. Se è per questo neanche a breve; me ne sono andata perché dovevo scegliere tra lo stipendio a fine mese e la sanità mentale. Quest’ultima mi sembrava una pratica più urgente da sbrigare, se volevo riuscire a trovare poi un lavoro più soddisfacente e così ho lasciato.

Piccolo ma fondamentale preambolo perché siano rispettate le premesse del titolo: io non mi sono licenziata perché sono un’eroina del nostro tempo, io mi sono licenziata, prima di tutto, perché in quel momento potevo permettermi, anche economicamente, di lasciare il lavoro. E poi perché in me dimora ancora un’idealista, che pensa sia più importante la dignità anziché un lavoro mortificante. 

Dicevamo. Ho dato le dimissioni senza sapere cosa sarebbe successo: non avevo un piano B, figuriamoci C o D. Pensavo soltanto che volevo tornare a respirare.

I primi mesi sono passati velocemente, tra feste di Natale e la riconquista dei miei spazi, poi è arrivata la pandemia e una serie di altri eventi a livello mondiale che hanno destabilizzato ancora di più le fragili basi che stavo gettando in quel momento. A un certo punto sembrava che ogni persona avesse un impellente bisogno di dire la sua opinione, elargire la sua conoscenza, schierarsi dalla parte della giustizia, accogliere quante più istanze possibili, partecipare a tutti i dibattiti presenti nelle 24 ore.

Io, invece, avevo solo voglia di dormire, mangiare, guardare serie TV e giocare alla PlayStation. Tutte cose poco responsabili e contrarie a una società produttiva. 

C’è anche un altro fatto da dichiarare: io mi lascio coinvolgere e influenzare facilmente, per poi stressarmi e odiare il mondo. Ho partecipato a webinar, seguito discussioni, impastato per fare pane e gnocchi, accettato collaborazioni che mi avrebbero lasciato con l’amaro in bocca, fatto donazioni per la causa del momento. Insomma, mi sono impegnata in tutto quello che mi sembrava giusto per essere produttiva, o dimostrare di esserlo, e per non sentirmi da meno. Dice meno cosa? Meno sostenibile, meno preparata, meno inclusiva, meno competente, meno riconoscente, meno amichevole. Anzi, più partecipavo a cose, più persone conoscevo, meno mi sentivo adatta a stare al mondo. All’improvviso mi sono resa conto che ero scappata da una situazione frustrante per infilarmi in una situazione altrettanto frustrante e che, tanto per cambiare, stavo perdendo di vista le mie necessità. Tipo stare tranquilla. Tipo divertirmi. Tipo coltivare quello che so fare meglio: raccontare facendo ridere. 

A me piace quando una persona dice “mi fai morire” e non perché ho un coltello in mano. Mi piace alleggerire anche un secondo della vita di qualcuno o sapere che ho detto qualcosa di importante ma in modo divertente. Questo perché certi discorsi piuttosto che altri e alcune personalità piuttosto che altre funzionano in primis su di me. A un certo punto, sul mio profilo Instagram, ho iniziato per gioco una rubrica dal titolo Giovedì: gnocchi; ogni settimana propongo un tema sotto forma di sondaggio, chiedendo di indicare preferenze, maschili e femminili, nel rispetto dell’argomento. Faccio un esempio: c’è stata la settimana in cui ho chiesto di scegliere tra capelli lunghi e capelli corti e indicarmi un personaggio famoso che motivasse la scelta oppure la volta in cui il tema è stato la musica, quella dei “brutti ma boni” e così via. 

Ho iniziato questa rubrica per puro caso e anche con un po’ di timore, pensando che avrei ricevuto delle critiche per il mio atteggiamento frivolo. In un momento storico come questo, io mi metto a dire che Ryan Gosling può anche sbagliare i congiuntivi e io lo vorrei lo stesso nel mio letto! 

Expectations: ero pronta ad abbandonare l’esperimento, a piangere davanti alla prima critica e a continuare a non sentirmi all’altezza. Reality: ogni settimana partecipa la gente più disparata a questa rubrica, gente che mi fa ridere con le sue scelte, gente che mi ringrazia per aver reso più sopportabile la sua settimana, gente con cui mi confido. Ci sono persone che si sentono libere di poter fare una battuta senza essere giudicate, altre che si sentono rincuorate dalle scelte fatte, altre che passano il tempo e basta.

Cosa ci vuole dire l’artista? In questo finale di stagione del 2020, vi e mi voglio lasciare con alcune riflessioni.

  1. Quelle cose che vengono definite brand identity, posizionamento e che noi, in amicizia, chiameremo solo identità, fanno parte di un percorso soggettivo e mutevole.
  2. Bisogna sapersi riconoscere e accettare, non forzarci in gabbie ed etichette che ci sembrano più mature e socialmente accettabili. Quando io, tuttora, penso di non essere all’altezza di qualcosa, piango, ma poi mi obbligo a ricordarmi che sono una brava persona e che sono degna di respirare la stessa aria di chi, non so, conosce la politica estera, usa la coppetta mestruale o ricorda la tabellina del 9.
  3. Non salvo il mondo, è vero, ma anche il più piccolo contributo, in un momento in cui la leggerezza può essere considerata un valore, può fare la differenza. Facendo ridere e ridendo, per esempio.
  4. Lasciando stare discorsi un po’ new age che non mi appartengono, il mio consiglio è, ogni tanto, di concederci il lusso di capire cosa ci piace, cosa sappiamo fare e cosa ci piace fare. Non solo se quella cosa mi porterà dei soldi o il premio Nobel per la pace che, per carità, buttali via, ma anche se la sento davvero mia e non perché ci si aspetta questo da me.

In conclusione: lo vedremo meglio in un altro post, ma se vi piacciono i giochini come piacciono a me, fosse anche nei ritagli di tempo, segnatevi una cosa che vi piace fare, qualcosa che sentite vostra. Le trecce all’olandese? La Marcia Imperiale soffiando nelle cannucce? Usare un tool condiviso con la famiglia per fare la spesa? Ecco, prendete appunti perché nelle prossime puntate potrebbero tornarvi utili.